Dopo due settimane di intense trattative tra i 198 Paesi partecipanti la Ventottesima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite ha chiuso i battenti tra gli inevitabili trionfalismi e recriminazioni.

Malgrado la forte pressione occidentale e dei paesi più poveri e vulnerabili essa non è riuscita a sciogliere il nodo più critico dell’uscita dai combustibili fossili, causa primaria delle emissioni climalteranti, né tantomeno della loro graduale riduzione secondo una tabella di marcia precisa e ben scadenzata nel tempo.

Contro l’inserimento nell’accordo finale di espressioni quali phasing out(dismissione) e phasing down(riduzione graduale) hanno  fatto muro i paesi petroliferi del cartello OPEC guidati dall’Arabia Saudita.

L’accordo finale contempla solamente ”una transizione dai combustibili fossili” al fine di azzerare le emissioni entro il 2050.Per raggiungere tale obiettivo il documento elenca una serie di opzioni comprendenti le energie rinnovabili, il nucleare, l’idrogeno e la cattura e stoccaggio di CO2 da abbinare all’uso dei combustibili fossili.

La scelta come sede della conferenza di uno dei maggiori Paesi produttori di petrolio e gas e la presenza a Dubai di oltre 2450 lobbisti delle multinazionali dell’oro nero lasciavano del resto pochi dubbi sul fatto che  le cose potessero andare a finire diversamente.

La scadenza della transizione contemplata dall’accordo  è il 2050 ma non è chiaro se entro questa data i paesi dovranno aver abbandonato completamente o meno  la loro dipendenza dall’energia fossile

Per ambientalisti ed esperti il termine inglese  “ transition away” prescelto nel documento è alquanto ambiguo e si può prestare alle più svariate interpretazioni.

Si tratta comunque di un timido passo avanti per ridurre la dipendenza dall’energia fossile che richiederà azioni spedite e decise perché la crisi climatica avanza a passi sempre frequenti e devastanti e mal si concilia con i tempi lunghi discussi  a Dubai.

L’influenza dei Paesi petroliferi si è fatta sentire anche nella stesura del primo bilancio globale degli effetti degli impegni volontari assunti da tutti i paesi per rispettare i parametri dell’Accordo i Parigi del 2015 incentrati sul mantenimento dell’aumento della temperatura terrestre entro i 2° centigradi e possibilmente entro 1.5° entro fine secolo rispetto all’era preindustriale. Sul tema è stato adottato il solito mantra che esprime preoccupazione per il forte aumento delle emissioni rispetto al 1990 e sottolinea che è ancora possibile centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi se sarà elevato il livello degli impegni degli Stati.

Resta da capire come si potranno raggiungere tali obiettivi ai ritmi attuali di produzione annua di CO2 che ha superato i 50 miliardi di tonnellate e propende all’aumento invece che alla riduzione. Forse non con il predicare la transizione dall’energia fossile entro il 2050 che lascia a tutti le mani libere ed ampia discrezionalità nel mix energetico del prossimo quarto di secolo.

Forse la crisi economica globale innescata dalla pandemia e quella energetica causata dalla guerra  in Ucraina e da altri conflitti armati possono aver ridimensionato in parte le ambizioni a livello mondiale di poter ottenere in tempi rapidi una inversione di tendenza nella produzione e consumo di energia fossile.

In tale contesto hanno ripreso quota gli accordi di esplorazione, produzione e fornitura di petrolio e gas che hanno  coinvolto in particolare i paesi africani combattuti da una parte tra la volontà di non pregiudicare con la transizione ecologica il loro sviluppo economico e dall’altra tra le preoccupazioni per gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici  nel loro continente.

Tra le ombre della COP28 va citata anche la mancanza di impegni ben tangibili in tema di finanza climatica per sostenere i Paesi più vulnerabili e più poveri ad adottare misure di mitigazione delle emissioni e di adattamento ai cambiamenti climatici nell’ambito dello schema per compensare le perdite e i danni subiti dagli stessi già esaminato nelle conferenze precedenti.

A Dubai è rimasta in prima linea l’Unione Europea, insieme ad altri Paesi occidentali e ai piccoli Stati insulari,  a tentare di arginare le pretese del cartello Opec di andare avanti come se nulla fosse , spostando l’attenzione della conferenza dalla dismissione dell’energia fossile a quella sulla  cattura e stoccaggio di CO2 ritenuti da esperti strumenti  ancora ben costosi e di scarsa efficacia tecnica.

La strada maestra da seguire entro il 2030 rimane quella lastricata di triplicazione delle energie rinnovabili installate, come emerge da una dichiarazione firmata a Dubai da oltre 120 paesi comprendenti il nostro di efficientamento energetico di marca europea, di economia circolare e di rapida riduzione della dipendenza dai combustibili fossili.

Al di là degli incerti risultati raggiunti nell’Emirato spetta alle Nazioni Unite continuare ad esercitare la massima pressione sui paesi firmatari e parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici affinchè rendano più ambiziosi gli impegni per ridurre le emissioni di CO2.

Se l’Onu non sarà  in grado di moltiplicare gli sforzi di persuasione morale(moral suasion) verso tutti i governi,  risposte più concrete ed efficaci potranno venire non dai consessi elefantiaci ed inefficienti bensì dai singoli paesi se pressati dalle rispettive opinioni pubbliche,  dai cittadini che vorranno puntare autonomamente sulla transizione green, dalle imprese se faranno della decarbonizzione una leva strategica per rilanciare gli affari e da noi cittadini che cerchiamo di fare ogni giorno scelte nuove e più responsabili per proteggere la natura anche nell’interesse delle future generazioni.

Per mantenere legittimità ed autorevolezza le conferenze annuali sul clima non devono prestare il fianco ai lobbisti di turno che perseguono gli interessi di pochi paesi a scapito del benessere dell’intera umanità.

Va quindi ripensato il formato di tali consessi per renderli più snelli e  operativi tramite l’attivo coinvolgimento accanto ai delegati governativi di attori non statali quali, imprese, centri di formazione, territori e società civile che sono i veri agenti del cambiamento economico e sociale.

Soltanto così si potrà mettere in atto il principio delle responsabiltà comuni ma differenziate secondo le capacità di ciascun paese che ha ispirato la stesura della Convenzione  già richiamata e il contenimento dei cambiamenti climatici portato avanti con alterne vicende dal 1992 in poi e oggi in corso  più che mai.

 

Leonardo Baroncelli

già Vice Presidente di NFI

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *