Lo scorso 19 dicembre si è conclusa a Montreal la 15 conferenza delle Parti (COP15) per la Convenzione sulla Biodiversità che si è conclusa con lo storico accordo denominato 30×30: ovvero portare dall’attuale 17% al 30% entro il 2030 la soglia delle aree protette per la conservazione della biodiversità.

L’accordo prevede il raggiungimento di 4 obiettivi finali entro il 2050: 1) riduzione delle minacce alla biodiversità, 2) utilizzo sostenibile della biodiversità, valorizzazione e conservazione dei benefici che offre alle persone 3) condivisione equa dei benefici, economici e non, derivanti dalle risorse genetiche, che includa anche le popolazioni indigene 4) implementazione e accessibilità per tutte le Parti agli strumenti necessari all’attuazione dell’accordo, inclusi quelli finanziari, tecnici, scientifici, tecnologici.

Rispetto alla prima versione di circa due anni fa, l’accordo riconosce esplicitamente il ruolo fondamentale dei popoli indigeni a difesa degli escosistemi sotto minaccia ma restano alcune perplessità circa la gestione delle aree protette che verranno create a tale scopo. Il modello di gestione che si sta consolidando infatti prevede di rimuovere da tali aree tutte le attività umane, compresi gli insediamenti indigeni che, con il loro stile di vita tradizionale, hanno contribuito allo sviluppo della biodiversità. In alcuni casi, come quello del Salonga National Park nella Repubblica Democratica del Congo*, i metodi utilizzati per raggiungere tale scopo si sono dimostrati violenti e si prefiggono l’obiettivo di dar vita a parchi nazionali in cui sviluppare un turismo da safari che consolida un’immagine secondo cui gli animali selvatici sono più importanti degli indigeni. Ma può essere tale turismo definito sostenibile ?

 

*Per approfondire il caso del Salonga National Park consigliamo la lettura dell’articolo d’inchiesta giornalistica condotta da Buzzfeed La guerra segreta del WWF e relativa udienza al Senato degli Stati Uniti  

 

 

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