Coraggiose, glamorous, osannate, sconosciute, avventurose. Sempre vigili e pronte a cogliere l’attimo più fuggevole, oppure estremamente riflessive, alla ricerca dell’inquadratura perfetta. Sono le donne fotografe, coloro che sono riuscite, attraverso l’obbiettivo, ad abbattere i pregiudizi di una pratica considerata “maschile”. Ma non solo: hanno lavorato in situazioni di pericolo, mettendo spesso a rischio la loro stessa vita. Si tratta di donne che hanno contribuito a cambiare i costumi, a far uscire le donne dalla loro posizione di “angeli del focolare”, per conquistare, finalmente anche se faticosamente, il loro posto nel mondo.

C’è un’immagine in cui i destini di due donne si incontrano. Un’immagine che sembra, ancora oggi, fuori dal tempo, perché quello sguardo di donna, accigliato e preoccupato mentre stringe i suoi figli in un abbraccio protettivo, nascondendo i loro volti, è sempre attuale. L’immagine in questione è Migrant Mother del 1936, la fotografia forse più nota di Dorothea Lange. La donna ritratta è invece Florence Thompson, di etnia Cherokee, madre di sette figli, di anni 32. La Lange ha raccontato che, prima di scattare quella fotografia, Florence aveva venduto i pneumatici del camion del marito per sfamare i suoi figli. La fotografia è diventata il simbolo della Grande Depressione, nonché icona della storia della fotografia. La storia di Dorothea Lange, di professione fotografa, e quella di Florence Thompson, di professione bracciante agricola, sono storie molto diverse, eppure grazie a quello scatto non solo si incontrano, ma aprono uno squarcio su quella che era la condizione dei contadini – e delle donne – nell’America degli anni Trenta. Ma chi era questa fotografa che sceglieva come soggetti i più umili, i dimenticati, coloro che, nelle campagne e nelle città, lottavano giorno e notte per la sopravvivenza? Dorothea Margaretta Nutzhorn nacque nel 1895 in una città dello Stato del New Jersey da una famiglia borghese di origini tedesche. A soli 7 anni contrasse la poliomelite, che le causò un handicap alla gamba destra con cui dovette convivere tutta la vita. Il padre abbandonò la famiglia quando Dortothea aveva 12 anni e da quel momento decise di usare il cognome della madre. Questi eventi non frenarono la determinazione di questa ragazza, che cominciò presto a interessarsi alla fotografia e a collaborare con diversi studi fotografici newyorkesi.

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La passione per la fotografia la portarono a intraprendere un viaggio, ma i soldi finirono presto e fu costretta a fermarsi a San Francisco, che ben presto divenne la sua casa. Qui aprì uno studio fotografico, si sposò, ebbe due figli. Le sue fotografie, in questo primo periodo, si concentravano sui ritratti di persone famose, ma ben presto si stancò dell’aspetto “patinato” della fotografia e aderì alla straight photography: la fotografia doveva essere diretta, senza filtri, e concentrarsi su soggetti realistici, fornendo una testimonianza di come vivevano i ceti più poveri, più emarginati. La Grande Depressione rappresentò, per la giovane fotografa, un’occasione irreperibile: immortalò i disoccupati e i senzatetto della California, i contadini che avevano abbandonato le campagne perché non più coltivabili e che si spostavano di paese in paese. La Lange considerava la macchina da presa un’estensione del suo occhio: le sue foto, semplicemente, “registravano” quello che lei trovava davanti a sé, che fossero povere madri con i loro figli emaciati al seguito o uomini nascosti dai loro usurati cappelli in attesa alla mensa popolare. Negli Anni 30 realizzò moltissimi reportage, sempre sulla condizione di immigrati, braccianti e operai.

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