La Convenzione sulla diversità biologica (CBD) è un trattato internazionale giuridicamente vincolante con tre principali obiettivi: conservazione della biodiversità, uso sostenibile della biodiversità, giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche. Il suo obiettivo generale è quello di incoraggiare azioni che porteranno ad un futuro sostenibile. La Convenzione copre la biodiversità a tutti i livelli: ecosistemi, specie e risorse genetiche, ed anche le biotecnologie, attraverso il Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza. In realtà, copre tutti i possibili domini che sono direttamente o indirettamente legati alla biodiversità e al suo ruolo nello sviluppo, che va dalla scienza, alla politica e all’educazione fino all’agricoltura, al commercio, alla cultura. L’organo di governo della CBD è la Conferenza delle Parti (COP). Questa autorità ultima di tutti i governi (o Parti) che hanno ratificato il Trattato si riunisce ogni due anni per esaminare i progressi compiuti, definire le priorità e impegnarsi in piani di lavoro.

Uno degli obiettivi principali è stato fissato con la famosa COP15 di Parigi: il contenimento del riscaldamento globale da raggiungere attraverso una serie di azioni mirate ad abbattere la produzione dei cosiddetti gas serra da portare a termine entro il 2050 ma alcune di esse prioritarie e da traguardare già entro il 2030. Il prossimo maggio 2021 si discuterà proprio del decennio che porta al 2030 (Post-2020 Global Biodiversity Framework) e in particolare di dichiarare aree protette almeno il 30% degli ecosistemi (terrestri, marini e di acqua dolce) ricchi di biodiversità.

L’obbiettivo del 30% è sicuramente auspicabile e condivisibile tuttavia il GIAN condivide alcune preoccupazioni non secondarie mosse da un nutrito gruppo di associazioni ambientaliste. quale modello di sviluppo della biodiversità?

Il modello di area protetta che si vuole adottare è quello di un area chiusa alle attività umane (human free areas) il che comporterebbe gravi ripercussioni sulle comunità locali e in particolare le popolazioni indigene che non potrebbero più vivere nei territori che da sempre abitano e sarebbero costretti a migrare e lasciare anche il loro stile di vita tradizionale. Di fatto il documento in analisi “Zero draft of the post-2020 global biodiversity framework” non contiene garanzie in tal senso e il modello della Human free protected area creerebbe un paradosso non solo in termini di logica.

Se infatti i popoli indigeni, con il loro stile di vita tradizionale, proteggono e sviluppano la biodiversità del territorio che vivono non vi sarebbe motivo di escluderli (di punto in bianco) da quelle aree per cui si vuole conservare la biodiversità che è proprio ciò che hanno dimostrato di saper fare meglio di chiunque altro. Questo scenario ci sembra frutto di un ragionamento che considera la conoscenza dell’uomo non-indigeno superiore a quella dell’uomo indigeno e in cui è il primo, nonostante i suoi palesi errori e molteplici fallimenti in materia di conservazionismo ambientale, a voler dire al secondo come deve risolvere i problemi che egli stesso ha causato.

Occorre infine considerare la questione anche da un punto di vista più generale: il problema del riscaldamento globale è determinato dalla produzione dei gas serra che NON avviene in quei territori ricchi di biodivesità candidabili a diventare area protetta. Per cui portare la quota delle aree protette entro il 2030 al 30% (fossanche al 50%) è un nobile traguardo ma rischia di non avere niente a che fare con la lotta ai cambiamenti climatici che dovrà avere luogo inevitabilmente nei paesi più industrializzati.

 

 

 

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