Com’è andata a Srebrenica?
Io non so cosa rispondere, però mi viene in mente Kokeza.
Kokeza scrive: delle donne e degli uomini che sono tornati a Srebrenica. Scrive perché bisogna farlo e perché, anche attraverso le sue parole, la comunità può tornare a vivere.
“Quel signore, per esempio, è serbo” mi dice Irvin per strada, poco dopo essere stato salutato da un caloroso “Hello my friend!”.
“Qui serbi e bosgnacchi vivono insieme. Sono i politici che, pur di mantenere le loro posizioni, fanno di tutto per dividerci”.
Io non me la sento di fare domande sulla guerra. Come potrei? Con che coraggio? Noi europei, che ci cade il mondo addosso per un attentato in metropolitana. Tutti a fotografare i fori dei proiettili nei muri, le abitazioni disabitate. Riportiamo questi souvenir nelle nostre comode case, li mostriamo agli amici e ci sentiamo ancora più al sicuro.
Sembra strano, ma anche se c’é stata la guerra, le donne e gli uomini restano donne e uomini. Continuano a vivere, a lavorare (quando ce n’è), a fare bambini, ad amare.

Poi mi viene in mente la signora con gli occhi color della Drina, che però non ricordo come si chiama. Pioveva e ci ha offerto il caffé nella cantina dove ha vissuto per tre anni, quando fuori non si faceva altro che sparare. Prima che ce ne andassimo mi ha regalato una bellissima zucchina.

Mi vengono in mente anche le meraviglie di questo posto, alcune viste, altre raccontate. Srebrenica vuol dire “cittá argentea”, talmente ricco è il suo sottosuolo di questo minerale. Ci sono 48 fonti termali, ognuna per curare un disturbo diverso. Il canyon della Drina, il lago, gli animali selvatici. Qui pure le lumache sono giganti e bellissime!

Mi viene in mente quel pezzo di terra, dove, a pensarci bene, abbiamo fatto una cosa così simbolica. Lì dove una volta c’era la casa dei nonni di Irvin, abbiamo tagliato rovi alti quanto noi. Erano rimasti nascosti per anni, ma in mezzo ci sono due ciliegi, un meraviglioso noce e anche un albero di pera-anguria, o almeno Irvin lo chiama così. Loro sì che hanno saputo resistere alla guerra.
In fondo al fosso si raggiunge anche un torrente e allora siamo a posto, c’è tutto.
L’acqua, “voda”. La terra, dove gli amici della sezione di Saviore hanno piantato il tipì. L’aria, che ti fa sentire la stagione che cambia. Il fuoco, la gioia nel vedere la prima fiamma e il fumo che esce in alto, e senti caldo anche se fuori fa freddo.
Abbiamo pulito dai rovi e abbiamo decorato, perché ci vogliono bellezza e pratiche di coloranza. Grazie a Evelyne, da Parigi con furore, abbiamo personalizzato il tipì. Speriamo che anche i Savioresi e gli Indiani ne siano felici.
“Il nonno deve essere contento!” esclama Irvin dopo aver trovato il quinto quadrifoglio nel prato.
Pulire e decorare, perché ce n’è bisogno per tornare a vivere.
L’imam canta, si torna a casa.
Mi accompagnano a Sarajevo e io, lì, non posso fare altro che andare a vedere il museo del genocidio di Srebrenica.
Questo augurio faccio ai suoi abitanti: pulite e decorate, fuori e dentro di voi.
Noi ci siamo per darvi una mano a farlo, perché, forse non ce ne rendiamo conto, ma ne abbiamo tanto bisogno anche noi.

Aurora Righetti

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